Fiume Sand Creek: testimonianza di un massacro
Tempesta all’Alba
Attraverso gli occhi lucidi e smarriti di un bambino Fabrizio De André ha scelto di raccontare la storia di un terribile massacro consumatosi all’alba del 29 novembre 1864, in un accampamento di nativi americani lungo le sponde del Big Sand Creek.
Il torpore notturno del giovane Cheyenne tramonta fulmineo all’esplodere delle prime avvisaglie, mentre l’alba inquieta giunge ad inondarlo di paura e di preoccupazione per il destino della propria tribù.
“Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura Fu un generale di vent’anni Occhi turchini e giacca uguale Fu un generale di vent’anni
Figlio d’un temporale
c’è un dollaro d’argento sul fondo del Sand Creek.”
La densità di questi primi versi costituisce l’epitome di quanto accaduto prima e durante il massacro. Il giovane generale dagli occhi turchini che ordinò la strage nell’accampamento nel quale era issata la bandiera a stelle e strisce, simbolo dei trattati di pace firmati dai capi tribù locali con il governo statunitense, altro non è che il colonello John M. Chivington.
La descrizione del generale, che conferisce una straordinaria potenza immaginifica alla narrazione, nasconde però un segreto al suo interno.
All’epoca del massacro infatti il colonello Chivington aveva 43 anni, non proprio un giovane ventenne insomma. Si potrebbe sorvolare rapidamente sulla questione, riconducendo questa apparente svista alla volontaria assunzione di una licenza poetica da parte degli autori del testo. Ma in tal modo si rischia di perdere il riferimento tragico che si cela dietro questi versi. Il giovane generale a cui Massimo Bubola (co-autore del testo) e Faber fanno riferimento è l’ufficiale George Armstrong Custer, esecutore di un altro efferato massacro, consumatosi il 27 novembre 1868 a Wahsita, ai danni di un’altra popolazione di Nativi. Un massacro nel massacro quindi; un riferimento sottile a quell’ingiustificabile e iterata brutalità che tornò a colpire le tribù riunite di Nativi americani, a distanza di 4 anni dalla strage del Sand Creek.
Gli antefatti
Ma dov’erano i guerrieri Cheyenne e Arapaho durante l’attacco?
Per capirlo occorre fare un passo indietro rispetto agli eventi che sconvolsero il villaggio posto a ridosso del fiume Sand Creek all’alba del 29 novembre 1864.
Tre anni prima, nel febbraio 1861 venne siglato il trattato di Fort Wise tra il Commissario agli Affari indiani Alfred Greenwood e un gruppo di capi Cheyenne e Arapaho, con il quale i nativi rinunciarono a quasi due terzi della loro precedente riserva, accettando di insediarsi in una zona compresa tra i fiumi Arkansas e Big Sandy Creek, in cambio di un cospicuo pagamento.
Ma anche dopo la stipula del trattato molti nativi americani restarono esattamente dove si trovavano, forse perché non vennero a conoscenza delle clausole del trattato, o probabilmente perché non si fidavano dei bianchi. Altri ancora rimasero dove erano stanziati da generazioni, perché non avevano intenzione di obbedire agli ordini dei soldati americani.
Il governatore Evans indisse allora nel 1864 un proclama con il quale esortava la popolazione a scacciare e ad uccidere quanti più Nativi americani possibile, fra i restii a rispettare le clausole dell’accordo.
A quel punto il colonnello Chivington cominciò a reclutare uomini che andarono a ingrossare le fila del 3° Reggimento dei Volontari del Colorado, con l’obiettivo di massacrare quanti più “indiani” avessero incontrato lungo la loro avanzata.
Il terzo Reggimento si abbatté su un gruppo di circa 600 Cheyenne. Il loro capo tribù Orso Magro, firmatario dell’accordo di Fort Wise, andò incontro ai soldati del 3° Reggimento disarmato per trattare la pace, ma venne ucciso non appena fu a portata di tiro.
I guerrieri Cheyenne accorsero subito numerosi per vendicare il proprio capo tribù e solo l’intervento del capo Pentola Nera, consentì ai soldati di mettersi in salvo con una precipitosa ritirata su Fort Larned.
La morte di Orso Magro indebolì la posizione dei sostenitori della pace come Pentola Nera, favorendo l’ascesa di leader più bellicosi, che cominciarono a guidare attacchi agli insediamenti dei coloni e ad assalire convogli di carri e diligenze.
Governatore Evans.
Per volere del capo Cheyenne Pentola Nera e grazie alla mediazione di William Bent, un colono dedito al commercio che aveva sposato una donna Cheyenne, venne proposto un accordo di pace che però fu respinto dal governatore Evans, il quale tentò in tutti i modi di attribuire loro la responsabilità dell’inizio delle ostilità.
Il colonnello Chivington invece lasciò intendere che se le tribù si fossero stanziate nelle vicinanze di Fort Lyon, sotto la sorveglianza dei soldati di stanza e dello stesso Chivington, non avrebbero avuto nulla da temere.
Alcuni capi dei Nativi allora si insediarono, con le proprie tribù, nelle vicinanze dei Fort Lyon, mentre l’esercito, senza fare distinzione tra nativi pacifici e belligeranti, si preparava a sedare la ribellione nel Nord-Ovest.
Pentola Nera, desiderando fortemente la pace e dietro la garanzia che nulla sarebbe accaduto ai suoi, obbedì all’ordine di accamparsi lungo il Big Sand Creek, poco lontano da Fort Lyon. Ben presto alla sua tribù si unì quella degli Arapaho.
L’attacco
Nella notte tra il 28 e il 29 novembre 1864, mentre la maggior parte dei guerrieri Cheyenne e Arapaho era impegnata nella caccia al bisonte, indispensabile per soddisfare i bisogni alimentari delle proprie tribù, alle quali era stata sospesa la distribuzione di viveri, il colonnello Chivington condusse personalmente 600 cavalleggeri presso l’accampamento sguarnito, posto a ridosso del letto asciutto del Sand Creek.
Nel villaggio si cominciò ad avvertire un lontano rimbombo degli zoccoli sulla pianura sabbiosa. Bisonti forse, o peggio: soldati.
“I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte E quella musica distante diventò sempre più forte Chiusi gli occhi per tre volte Mi ritrovai ancora lì Chiesi a mio nonno è solo un sogno
Mio nonno disse sì”
Durante l’assalto il capo anziano Pentola Nera, illuminato dalle prime luci del mattino, issò una grande bandiera americana in cima a un lungo palo, per testimoniare gli accordi siglati qualche tempo prima. Rassicurò i suoi, convinto che i soldati non avrebbero fatto loro dei male.
Il colonnello Chivington invece, dopo aver fatto circondare l’accampamento, comandò l’attacco contro una popolazione inerme e indifesa.
La violenza cruda e crudele dell’attacco americano è raccontata dallo stesso De Andrè, in un resoconto ricco di particolari oscuri e macabri, attraverso un registro più critico e meno poetico rispetto a quello utilizzato nella canzone, in grado di restituire forse più realisticamente la brutalità dell’accaduto:
“È il vergognoso assalto al Sand Creek, un campo di indiani Sioux, da parte di un’accozzaglia di degenerati guidati da un certo colonnello Chivington. Nel campo indiano non c’erano altri che vecchi, donne e bambini, essendo i guerrieri a caccia; fu un massacro totale con tanto di asportazione di “souvenirs”: tra questi souvenirs primeggiavano per finezza di fattura alcune borse di tabacco ricavate dalle mammelle svuotate delle squaw indiane, tali reperti furono esibiti per due giorni dopo il massacro nel teatro di un vicino paese. Inutile dire che il colonnello Chivington fu promosso Generale e quasi eletto senatore degli Stati Uniti”
I pochi uomini rimasti al campo vennero mutilati e scalpati, le donne venero oltraggiate, una bambina di circa sei anni fu mandata fuori con una bandiera bianca, per chiedere una tregua agli assalitori, ma questa fu subito freddata dai soldati.
Il numero esatto delle vittime del massacro di Sand Creek non è chiaro. Nel suo rapporto il colonnello Chivington indicò la cifra di 500 o 600 nativi uccisi, sostenendo, poco verosimilmente, che la maggior parte delle vittime erano guerrieri e che il numero di donne e bambini rimasti uccisi era molto basso
“Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
Il lampo in un orecchio nell’altro il paradiso
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l’albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Ora i bambini dormono nel letto del Sand Creek”
Il mausoleo degli oppressi
L’alba di quel 29 Novembre 1864 segnò una volta ancora, lungo l’orizzonte storico degli eventi, il tramonto dell’umanità, la sua ora più buia.
Ma dinanzi alla violenza spietata, disumana, l’arte diviene catarsi, espiazione, riscatto.
Lo diventa per mezzo di quelle frecce scoccate contro il cielo e contro il vento, da un bambino ormai non più inerme bersaglio, ma potenziale vendicatore in una guerra incessante, per un bambino ormai solo, solo con i demoni che lo accompagneranno per sempre, di lì in avanti.
“Quando il sole alzo’ la testa sulle spalle della notte
c’erano solo cani e fumo e tende capovolte
tirai una freccia al cielo per farlo respirare
tirai una freccia al vento per farlo sanguinare
la terza freccia cercala sul fondo del Sand Creek”
Per Faber “la canzone è una delle tante arti del raccontare” e in “Fiume Sand Creek” tenta di rendere giustizia ad un eccidio troppe volte messo in secondo piano, posto al di fuori del cono di luce dei riflettori.
Come lui stesso afferma: “Penso che l’arte sia il modo fondamentale per riuscire a spiegare meglio la verità. Ci sono molti esempi in tal senso. Sappiamo bene tutti che nei momenti di forte terrore siamo portati a solidarizzare con prossimo. Appena il cielo si rischiare e le difficoltà sono passate, ritiriamo fuori i coltelli e si ritorna a combattere come prima dell’insorgere dei tuoni.”
Ma il voler rendere giustizia attraverso il ricordo, la testimonianza, la poesia è un tentativo che lo conduce a misurarsi con una più amara consapevolezza: “Ho scritto canzoni contro la guerra, ispiratemi da racconti di mio zio, che s’è succhiato la guerra di Albania nell’ultima guerra mondiale, ed è il caso della Guerra di Piera. Ho scritto Sidùn parlando di un padre palestinese che piange su suo figlio schiacciato dalle ruote di un carro armato israeliano. Ho scritto Sand Creek… Tutto questo evidentemente non è servito a molto”
La sua poesia ha sempre accompagnato le sofferenze degli ultimi, degli oppressi. La sua opera è un Mausoleo immenso per le vittime di ogni guerra e di ogni repressione. Ma l’arte commemora, non difende, sconvolge, senza costituire un deterrente per la violenza, celebra, ma non può nulla contro l’arroganza dei mediocri.
Quest’amara impotenza accompagna gli ultimi versi di “Sand Creek”, l’immenso omaggio con il quale Faber celebra il destino dei grandi oppressi d’America, schiacciati dalla violenza dei bianchi senza scrupoli, ma resi immortali dal canto malinconico di un solo poeta ribelle.
Bibliografia:
Fabrizio De Andrè, Sotto le ciglia chissà, i diari, Oscar Mondadori, 2016
Sitografia:
https://www.farwest.it/?p=1685 : aggiornato al 06/05/2020 ore 19:37