Dottor Manhattan: tra superomismo e deterrenza

Chi pensa che la fumettistica appartenga ad una letteratura di caratura secondaria e che la fantascienza sia un genere di mero intrattenimento per giovani nerd incapaci di cogliere la bellezza della narrativa di livello, dovrà certo ricredersi dopo aver sfogliato l’ultima pagina di “Watchmen”.

Pubblicato negli States nel settembre 1986, il fumetto è il frutto di una collaborazione di successo che ha dato forma visiva, per mezzo delle illustrazioni di Dave Gibbons, alla narrazione ucronica di quel genio visionario di Alan Moore.

La rivista Time lo ha incluso nella lista dei cento migliori romanzi in lingua inglese scritti dal 1923 ad oggi ed è l’unico fumetto ad essere entrato a far parte di questo novero.

Senza rischiare di veicolare troppi spoiler e strappando in vari punti la trama narrativa, l’articolo analizzerà unicamente una delle figure più celebri e rilevanti del fumetto, quella del Dottor Manhattan, mettendone in luce gli aspetti di più precipuo interesse filosofico.

Per questa ragioni la presente trattazione è rivolta anche a chi non è stato ancora folgorato dalla lettura di questo capolavoro a fumetti.

Superomismo: tra clark Kent e Friedrich Nietzsche

Secondo il portale di informazione Cinematown, Manhatthan è in assoluto il supereroe più forte di sempre:

Come visto in Watchmen, Manhattan ha poteri che risultano pressoché illimitati, unendo la saggezza di Dottor Strange, la resistenza di Superman e i poteri al di sopra della Fenice. Non esiste un personaggio che, nella Marvel o nella DC, possa in qualche modo danneggiarlo.”

Ed è sicuramente anche tra i supereroi più atipici mai ideati, per una serie di ragioni che vanno dalla mancanza di un costume (è solitamente raffigurato addirittura senza indumenti addosso) che possa celare la sua identità, all’assenza di un punto debole o di un nemico capace di contrastarlo realmente; dal distacco emotivo che sviluppa nei confronti delle vicende umane, al dissiparsi dell’interesse filantropico che avverte come via via più marcato.

Più vicino ad un oltre-uomo quindi, che ad un superuomo kryptoniano dalla morale ferrea e binaria in stile Clark Kent.

Manhattan travalica l’umano, non solamente in virtù delle capacità di cui dispone, che gli consentono di avvertire simultaneamente eventi passati, presenti e futuri e di plasmare la materia a suo piacimento, ma anche e soprattutto per la sua capacità di liberarsi da quelle catene sociali e morali che opprimono l’agire degli esseri umani, di spezzare, come un vero spirito libero, quei vincoli “umani, troppo umani” al fine di collocarsi in un panorama etico posto “al di là del bene e del male”, che metaforicamente nel fumetto assume i contorti e la morfologia del pianeta rosso.

Inoltre, Jonathan Osterman (vero nome di Manhattan) dinanzi all’insensatezza mirabile del cosmo, come un provetto Übermensch, non cade vittima di un nichilismo passivo, in quanto progetta di agire attivamente sulla quella stessa realtà che lo circonda.

In un primo momento, indirizzando i suoi sforzi scientifici e pratici verso un avanzamento tecnologico che possa contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di molti esseri viventi, come vedremo più nel dettaglio nel prossimo capitolo.

E, nel finale, prefiggendosi l’obiettivo di creare forme di vita “meno complesse”, cioè meno appesantite dalla complessità morale che determina la condizione umana, in un modo del tutto peculiare di dire “sì” alla vita.

Ma è nell’esilio meditativo su Marte che si colloca il vero turning point della vicenda del nostro semidio fluorescente.

Qui, infatti, la mente diacronica del Dottore è attraversata da una folgore di consapevolezza: nel confronto con Laurie riscopre la meraviglia stocastica della vita, regalandoci al contempo uno dei monologhi più belli di tutto il fumetto.

I miracoli, eventi così improbabili da essere impossibili, come… L’ossigeno che si trasforma in oro. Ho sempre voluto assistere ad un simile evento, e intanto, dimentico che, nell’accoppiamento umano, milioni e milioni di cellule concorrono a creare la vita, generazione dopo generazione, finché alla fine tua madre ama un uomo, Edward Blake, un uomo che ha tutte le ragioni di odiare, ed è proprio da quella contraddizione contro qualunque probabilità, SEI TU, solamente TU, che emergi… Riuscire a distillare, una forma, così specifica, da tutto quel Caos… È come trasformare l’aria in oro. Un miracolo. Quindi mi sbagliavo… Asciugati le lacrime e torniamo a casa.”

La vita difesa in quanto processo di emersione di un’individualità a partire da una miriade di possibilità. Un’emersione che a sua volta apre ad infinite possibilità percorribili e non prevedibili a priori. Questo è il valore che Manhattan arriva a riconoscere, che sceglie di preservare e che tenta di ricreare nella conclusione dell’opera.

Un margine di miglioramento, uno spiraglio di progresso almeno potenziale sembra quindi aprirsi dinanzi all’umanità. Possibilità che impedisce anche all’essere più potente di sempre di esprimere condanne o giudizi affrettati su una specie in fieri.

I limiti della tecnica: tra deterrenza ed ecosostenibilità

Un altro dei temi spiccatamente filosofici che si possono cogliere fra le pagine del fumetto è quello del rapporto tra umanità e progresso tecnologico.

Manhattan è impegnato, fin dalla sua prima apparizione nel fumetto, nello sviluppo di tecnologie miranti al miglioramento delle condizioni di vita dell’intero ecosistema terrestre. La messa a punto di autovetture a zero emissioni ne è un esempio lampante.

Ma nonostante i suoi sforzi scientifici e filantropici, egli è prontamente impiegato dagli alti apparati dell’esercito come una vera e propria arma, come un asso nella manica propagandistico utile ad intimidire o a schiacciare qualsiasi ostacolo posto alla supremazia statunitense.

È reclutato direttamente dal Presidente Richard Nixon, preoccupato tanto per il dilungarsi della guerra in Vietnam quanto per la sua imminente ricandidatura, il quale gli affida lo sterminio di quanti più Vietcong possibile.

Nel pieno della Guerra Fredda poi Manhattan è metafora concreta della deterrenza made in USA. La sua sola esistenza è considerata garanzia di pace e prosperità per il mondo intero da milioni di americani. Ma, come sempre, l’equilibrio costruito sulla deterrenza si rivela essere assai precario nei momenti di tensione, in quegli attimi nei quali una svista, una mancanza può, come su di un piano inclinato, far scivolare il mondo intero dentro una profondissima e buia voragine.

Ed è proprio sfruttando l’esilio marziano del Dottor Manhattan, che l’Unione Sovietica rende manifeste le sue aspirazioni di dominio in Afghanistan, avvicinando così le lancette dell’Olocausto nucleare alla mezzanotte.

Anche contando su di un ritorno improvviso del Dottore, gli scenari più ottimistici vedono molte delle principali città degli USA distrutte dalle armi nucleari sovietiche, a lungo tenute al sicuro da un regime che tenta ora di approfittare al massimo della situazione imprevista, dopo anni di velata subordinazione all’egemonia statunitense.

L’idea stessa che la sola presenza del Dottore sia garanzia di pace per l’umanità è messa in dubbio all’interno di un meta-saggio geopolitico del professor Milton Glass (ex-capo dello stesso Jonathan Osterman) contenuto nel fumetto e intitolato “Dr. Manhattan: Superpoteri e Superpotenze”:

“La presenza di un deterrente quale il Dr. Manhattan ha certamente frenato l’avventurismo sovietico: ci sono state numerose occasioni in cui l’URSS ha dovuto cedere su alcune questioni piuttosto che rischiare un’escalation verso una guerra che certamente non avrebbe mai vinto. Spesso si è trattato di vere e proprie umiliazioni, e questo ha dato forse nuova forza all’illusione che i sovietici subiranno queste offese in eterno. E un’idea sbagliata, dal momento che esiste un’altra possibilità. Una possibilità che definirei “Distruzione Sicura e Reciproca”. In poche parole, il Dr. Manhattan non può impedire a tutte le testate sovietiche di raggiungere il territorio americano. Anche un numero minimo sarà più che sufficiente per porre fine a ogni forma di vita organica nell’emisfero settentrionale. L’idea che la presenza di un superuomo stia spingendo il mondo verso la pace è smentita dal netto aumento delle riserve nucleari in Russia e in America seguito alla comparsa del Dr. Manhattan. Una distruzione totale divisa per due, per dieci o per venti è sempre una distruzione tota le. Minacciati di essere assoggettati, i sovietici perseguirebbero una politica inequivocabilmente suicida? Si. Data la loro storia e la loro visione del mondo credo di sì.”

Come nell’antico mito di Prometeo, la potenza nucleare è un dono della tecnica in grado di condurre l’uomo verso il baratro o verso scenari di coesistenza più desiderabili.

Il Dottor Manhattan si colloca proprio al centro di questo crocevia. Egli è il Demiurgo che dal nulla può dar forma ad un futuro più prospero. Ma è anche l’Atlante che sorregge su di sé le tensioni globali, contribuendo inconsapevolmente al totale arresto della vita sulla Terra.

Egli è l’emblema della potenza della tecnica che tenta di disinnescare quei disastri imprevisti da essa stessa provocati. Egli è l’unica possibilità per una coesistenza pacifica dell’umanità intera ed al contempo l’artefice principale della sua imminente distruzione.

La teogonia di uno scienziato: diacronia simultanea

Sempre nel saggio sopracitato leggiamo:

Quando il mondo fu informato dell’incredibile comparsa di quest’essere, venne usata un’espressione che di volta in volta è stata attribuita a me o ad altri. Nei notiziari televisivi che si susseguivano in quella sera fatidica, c’era una frase che veniva ripetuta continuamente: “Il superuomo esiste ed è americano“. Non ho mai detto quella frase, anche se ricordo di aver dichiarato qualcosa di simile a un giornalista insistente che non voleva andarsene senza qualcosa da citare. Presumo che la mia osservazione sia stata alterata e alleggerita per non offendere la sensibilità del pubblico. In ogni caso, non ho mai detto “II superuomo esiste ed è americano”. bensì “Dio esiste ed è americano“. Se questa affermazione inizia a farvi gelare il sangue nelle vene dopo che ci avete riflettuto sopra per qualche istante, non vi allarmate. Una sensazione di intenso e travolgente terrore religioso di fronte a questa idea sta a indicare solo che siete ancora sani.”

L’apoteosi di Jonathan Osterman ha un impatto notevole anche sulla sua vita privata, determinando una progressiva trasformazione delle relazioni che il Dottore aveva fin lì intessuto a causa soprattutto del diverso modo di percepire lo scorrere del tempo.

A pagarne i danni maggiori è soprattutto Janey Slater, la sua prima ragazza, la quale si ritrovò non solo ad assistere impotente agli effetti dello scorrere del tempo sul suo corpo, che diversamente da quello di Jon tendeva a sfiorire di giorno in giorno, ma anche a registrare una disattenzione graduale nei confronti della relazione stessa da parte del suo amato.

Disattenzione causata perlopiù dal fatto che il Dottore, dopo l’incidente con il campo intrinseco, sviluppò un libero accesso non solo verso i contenuti di memoria del suo passato, ma anche verso la conoscenza di quegli eventi che lo avrebbero interessato in futuro.

Come in un presente continuo, come in una diacronia simultanea, Jon era ora in grado di osservare l’avverarsi di fenomeni già previsti e in un certo senso già vissuti.

Di punto in bianco Jon si trovò a vivere la sua esistenza quasi in terza persona, come un estraneo, come un attore che conosce bene l’intero copione del suo spettacolo, perdendo così di volta in volta il piacere di metterlo in scena.

La simultaneità, da lì in avanti, rimase un che di relativo solo per gli altri, per gli umani. Per Jon passato, presente e futuro divennero un qualcosa di intrecciato e di inestricabile, quasi un’unica dimensione in cui si trovava ad esistere da essere onnisciente qual era.

L’unico legame con qualche elemento di recondita umanità sepolta sotto l’immenso potere acquisito, è riportato alla luce grazie all’intervento di un’altra donna, Laurie Juspecz, la sola capace, come abbiamo visto, di fargli riscoprire la meraviglia di quell’anomalia biochimica noto come vita.

Ma come una perfetta divinità epicurea che vive nella completa beatitudine raggiunta attraverso il totale distacco dalle vicende umane, Jon comprende alla fine quale sia il suo posto nell’universo: lontano dagli intrighi e dalla complessità del genere umano, dove acquista la possibilità di svolgere indisturbatamente la sua funzione creatrice, demiurgica.

Chi controlla i controllori?

Ma la vicenda del Dottor Manhattan ci ricorda anche quali possano essere i rischi e le derive di un potere incontrastato a cui vengono concesse prerogative in cambio di livelli maggiori di sicurezza.

Cosa fare nel caso in cui quel potere venga meno? È possibile immaginare un modo di convivenza alternativa non fondata sulla deterrenza? Come disinnescare una corsa agli armamenti potenzialmente mortifera per l’intera umanità?

In sintesi: chi controllerà i controllori? Quis custodiet ipsos custodes? Who watches the watchmen? Per l’appunto, come si domanda Giovenale nella sua Satira numero VI.

Quesito attuale in ogni epoca che nel fumetto sembra risolversi proprio nella dipartita di Manhattan. Perdendo il controllore supremo, l’umanità riscopre sé stessa, sviluppando metodi di coesistenza pacifica fondati sulla diplomazia e sulla collaborazione internazionale.

Uno scenario finale lontano dal selvaggio stato di natura hobbesiano e più in linea con un modello di pace perpetua kantiano.

Non ci è dato sapere quanto questa pace sia destinata a durare nel fumetto, ma la sfida lanciata da Moore e Gibbons permane.

E voi siete ancora convinti che Watchmen sia solo un fumetto per bambini?