Deumanizzazione e stigmatizzazione: quando l’altro vale meno di noi

I pregiudizi fanno parte della nostra quotidianità, possono essere di diverso tipo e colpire diversi gruppi. In generale, una delle definizioni più precise che si trovano in letteratura è la seguente: “Atteggiamento negativo nei confronti di un individuo, che si fonda unicamente sull’appartenenza di quell’individuo ad un particolare gruppo.” (Worchel, Cooper, Goethals, 1998)

Una delle forme di pregiudizio più violente, pericolose, sminuenti ed estreme è la deumanizzazione. Essa consiste nell’esclusione di individui o gruppi di individui etichettandoli, sminuendoli come se non avessero le caratteristiche adeguate o socialmente accettabili attraverso delle pratiche poco ortodosse: è la negazione dell’umanità dell’altro. La deumanizzazione funge anche da giustificazione cognitiva, come vedremo più avanti, quando si agisce in modo violento, ad esempio nei casi di stermini, genocidi e torture.

Ci sono diversi modi per deumanizzare un individuo ad esempio reputandolo simile a un animale, quindi con caratteristiche diverse dall’uomo che spesso si riferiscono alla sfera intellettiva e che descrivono la persona come senza autocontrollo o senza cultura, immatura.

La gravità di questa tipologia di deumanizzazione detta animalizzazione (o deumanizzazione animalistica) sta proprio nel riferirsi all’essere umano come sottomesso a un altro, poiché la differenza tra noi e gli animali sta proprio nell’intelletto e nella nostra superiorità. Basti pensare agli ebrei che nel dopoguerra venivano etichettati come “pecore da macello” o, riferendoci a tempi molto più recenti, le persone di colore che vengono associate a primati. Un altro modo per negare l’umanità dell’altro è attraverso la demonizzazione dove l’altro diventa una strega, un bruto o un diavolo. Come sostiene Volpato (2012), si associa l’individuo al mostro: esso è visto come tale per caratteristiche fisiche o per poteri che gli vengono associati. Il “male” si è incarnato nel diavolo e diventava realtà nella persecuzione alle streghe: in questi casi le corti ecclesiastiche europee ebbero un ruolo fondamentale. Se si pensa che la persecuzione alle streghe è detta anche “caccia alle streghe” si può notare l’assonanza tra le streghe e gli animali dato che, solitamente, la caccia è un passatempo dove la preda è un animale e non una persona. Quindi non bastava che alcune donne (ma anche uomini) fossero etichettate come streghe (che nella credenza popolare sono esseri che preparano pozioni nei loro calderoni) quindi portatrici di una magia deleteria ma troviamo anche un’animalizzazione, sottolineando in questo modo un doppio disprezzo per queste persone: “non solo sei pericolosa per i tuoi poteri e quindi sei “il male” ma io (essere superiore) ti caccerò come si fa con gli animali”. Tuttavia è necessario sottolineare che all’epoca si cercavano le streghe o gli stregoni che erano in fuga poiché l’opinione pubblica li aveva additati come persone che svolgevano attività illecite, perciò la caccia alle streghe era soprattutto relativa alla ricerca di un gruppo clandestino. Un’ulteriore tipologia di deumanizzazione è la biologizzazione, legata alla purezza, alla malattia, all’igiene, al mantenersi sani, alla pestilenza. I concetti di malattia e pestilenza erano quotidiani ma più avanti, con le scoperte scientifiche in campo medico, il diavolo e il male sono stati smitizzati e hanno preso una nuova forma: quella dell’eliminazione del nucleo malato. Questo tipo di deumanizzazione è legato a genocidi e stermini: si può infatti ricondurre a questo discorso il concetto di antisemitismo che, a partire dagli anni ’30, prese una forma biologica, appunto, e venne così introdotto il concetto di “razza ebraica” e che si lega a una differenziazione tra razze, una pura e una no. Nei paesi in cui non dilagava ancora l’odio per gli ebrei, come in Italia, ci fu una vera e propria diffusione dell’antisemitismo razziale. La meccanizzazione è un tipo di deumanizzazione recente e colpisce l’aspetto emotivo: la persona è un robot, un ammasso di ferraglia che non prova emozioni e come i robot risulta freddo, scostante, incapace di provare empatia, un automa. Naturalmente non provando emozioni ed essendo freddi non suscitano nessun tipo di sentimento nemmeno negli altri.

L’oggettivazione è forse una delle più conosciute e sottovalutate forme di deumanizzazione che possiamo constatare quotidianamente. Essa implica la percezione dell’altro come oggetto, strumento. In questo caso è la soggettività che viene negata perciò diventa qualcosa da usare, da violare e sfruttare. Tra le svariate tipologie di oggettivazione troviamo l’oggettivazione sessuale: si valuta la persona in base all’uso che si può fare delle sue caratteristiche prettamente sessuali e avviene una scissione tra queste caratteristiche e tutti gli altri tratti di personalità che compongono la persona in sé.

Diversi studi hanno evidenziato come l’oggettivazione, insita nella società moderna, possa condurre alla sessualizzazione precoce delle bambine rispetto ai maschi. Per questi ultimi la spinta sociale prevalentemente riconosciuta è quella che tende a disegnare un uomo in posizione dominante, la società vuole l’uomo in carriera e ben piazzato, nonostante l’idea della donna in carriera e in una posizione di comando non sia più fantascienza. Perciò mentre l’uomo tenta di liberarsi di questa immagine di uomo forte e potente, la donna deve far fronte al problema di rispondere ai criteri di “oggetto di desiderio”. Tutto ciò comporta che le donne interiorizzano la prospettiva del soggetto oggettivante e si trattano e si percepiscono come oggetti da valutare in base all’aspetto fisico. Ad aiutare quella che è stata chiamata auto – oggettivazione contribuiscono i mass media che mettono il corpo femminile sotto un riflettore particolare che serve proprio a sottolinearlo come bersaglio dell’oggettivazione e la donna è così portata ad auto – oggettivarsi e a vedersi come sbagliata, come se di fronte a lei ci fosse tutto ciò che lei non ha e che non è. I media offrono corpi femminili scolpiti, con ogni curva al posto giusto, sorrisi smaglianti e apprezzamenti maschili che contribuiscono ad aumentare l’autostima. Alcuni studi hanno analizzato le foto dei periodici e di ritratti di artisti noti e non e hanno scoperto che mentre per gli uomini i tratti che emergevano di più erano quelli del volto, per le donne erano tratti del corpo. (Archer, Iritani, Kimes e Bamos, 1983). Altri studi si sono concentrati, invece, sui cartelloni pubblicitari nei quali è emerso che il corpo femminile è quantitativamente e qualitativamente più sessualizzato rispetto a quello maschile (Baker, 2005; Copeland, 1989; Hatton e Trautner, 2011; Rudman e Hagiwara, 1992; Sommers-Flanaganet al., 1993; Gasparri, 2011). La continua esposizione fin da bambine delle donne a determinati canoni di bellezza può portare, invece che ad apportare una differenziazione costruttiva che può definire l’assetto identitario della persona, a vivere le differenze con i corpi in copertina o alla televisione come anormalità. Dal punto di vista psicoanalitico il corpo diventa una prigione piena di difetti e in particolare in periodi più delicati, come l’adolescenza, allo scopo di permettere l’integrazione tra il corpo anatomico e la rappresentazione conscia e inconscia del corpo è necessario un lavoro psichico che implica una rielaborazione sia dell’immagine corporea sa del corpo come oggetto interno. Se il corpo estraneo (quello che ha subito la maturazione genitale) diventa nemico può esserci un’integrazione problematica, perché l’adolescente deve integrare il senso di estraneità per contribuire all’integrazione delle nuove caratteristiche insorte con la pubertà. Tuttavia mentre è presente una iper – sessualizzazione della donna troviamo anche un’iper – mascolinizzazionedell’uomo e anche in questo caso il ruolo dei mass media è fondamentale. Infatti i giovani adoni che i mass media presentano hanno una notevole massa muscolare, perciò non è difficile notare che anche gli uomini considerino inadeguato il proprio corpo dovendo competere con determinati standard. Quindi essere bombardati da immagini televisive, foto sui giornali, senza stare a citare tutti i vari social media, influenza sia le ragazze sia i ragazzi evidenziando categorie di perfezione che creano degli stereotipi sulla sessualità e sui ruoli di genere dove entrambi i sessi sono obbligati ad avere un corpo perfetto senza cellulite e smagliature (per le donne) e con gli addominali e le spalle possenti (per gli uomini). Restando sull’oggettivazione, gli esperimenti presentati a favore di questo tipo di disumanizzazione sono molteplici ma uno dei più famosi è emblematico di questo attacco all’umanità dell’altro e, probabilmente, ognuno di noi può essersi sentito nel modo che adesso andremo a vedere.

Basandosi sulla teoria dell’oggettivazione secondo cui, come già detto, le donne tendono ad adottare lo sguardo del soggetto oggettivante vedendosi e percependosi solo come merce da valutare, Fredrickson, Roberts, Noll e altri hanno svolto due  esperimenti ipotizzando che l’auto – oggettivazione causi vergogna per il proprio corpo e che porti a un’alimentazione moderata, diminuisca le prestazioni matematiche, le conseguenze emotive siano evidenti per le donne e non per gli uomini.Così, attraverso l’Esperimento del costume da bagno (The Swimsuit Experiment, 1998) hanno cercato di provare queste ipotesi. Un primo esperimento fu condotto su 72 donne e servì per testare la prima ipotesi: una parte del campione doveva indossare un costume da bagno, l’altra una felpa, in seguito dovevano compilare un test fingendo di essere davvero in un negozio e di dover decidere se comprare o meno il capo. In seguito le donne avrebbero partecipato a un test di assaggio con biscotti e bevande, lasciate cinque minuti da sole nella stanza insieme al cibo. I risultati hanno evidenziato che le donne che avevano indossato il costume da bagno avevano provato vergogna per il proprio corpo e avevano ottenuto punteggi più alti per quanto riguardava l’auto – oggettivazione rispetto a coloro che indossavano la felpa. Anche l’ipotesi di un’alimentazione più moderata è stata confermata, sempre da coloro che indossavano il costume da bagno rispetto alle donne con la felpa. Nel secondo esperimento che comprendeva anche gli uomini, i compiti erano gli stessi con l’unica differenza che mentre i partecipanti indossavano il costume o il maglione dovevano svolgere un test di matematica. I risultati hanno replicato quelli del primo esperimento sulla vergogna del proprio corpo e sull’alimentazione; nel test di matematica svolto dai partecipanti le donne che indossavano il costume da bagno hanno ottenuto un punteggio molto più basso rispetto a quelle che avevano la felpa, confermando così che indossare un costume provoca auto – oggettivazione, la quale causa una vergogna tale da diminuire le prestazioni matematiche poiché incide sulla concentrazione. Infine per l’ultima ipotesi è stato evidenziato che gli uomini non vedevano la situazione come un problema. Gli uomini che indossavano il costume da bagno hanno sostenuto di sentirsi sciocchi ma non di provare sentimenti di disgusto o di repulsione. Uomini e donne hanno fornito anche risposte comportamentali molto differenti e, sostenendo in questo modo l’ultima ipotesi, le conseguenze dell’auto – oggettivazione erano evidenti per le donne e assenti per gli uomini.

Alcune puntualizzazioni sulla deumanizzazione

La de – umanizzazione ha diverse funzioni adattive: può fungere da giustificazione per gli atti terribili compiuti nei confronti del gruppo deumanizzato; può anche permettere di avere una visione positiva della propria condizione sociale in quanto il gruppo deumanizzato si pone in una condizione privilegiata che lo escluderebbe dalla stessa sorte del gruppo deumanizzato; infine un’ultima funzione è quella di allontanare da una situazione che provoca angoscia e senso di colpa. La disumanizzazione deriva dalla categorizzazione sociale: una suddivisione in ingroup (ossia il gruppo a cui apparteniamo) e in outgroup (gruppo a cui non apparteniamo, ossia l’altro di cui abbiamo parlato finora): il razzismo, ad esempio, è la credenza che un gruppo razziale sia geneticamente superiore rispetto a un altro. Può anche accadere che gli individui associno una capacità mentale complessa come appartenente ai membri del proprio gruppo e ciò può avvenire anche in modo inconscio. Si parla di infra – umanizzazione, ossia l’inconscia attribuzione di maggior umanità al proprio gruppo. L’infra – umanizzazione è una tipologia di deumanizzazione sottile e spesso non si ha la consapevolezza di esercitare questo tipo di deumanizzazione. La deumanizzazione implica una svalutazione dell’altro gruppo, l’infra – umanizzazione una più sottile percezione dell’altro come meno umano rispetto a noi.

La disumanizzazione implica l’assenza di sentimenti empatici nei confronti dell’altro ed è nel momento in cui l’altro diventa inumano che abbiamo la capacità di compiere azioni violente. La disumanizzazione diventa l’arma per uccidere, sterminare e torturare l’altro.

“Non si chiama altrimenti che così, Zero Diciotto, le ultime tre cifre del suo numero di matricola: come se ognuno si fosse reso conto che solo un uomo è degno di avere un nome, e che Null Achtzehn non è più un uomo. Credo che lui stesso abbia dimenticato il suo nome, certo si comporta come se così fosse. Quando parla, quando guarda, dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo a sassi, e il vento le scuote.”

Queste poche frasi tratte da “Se questo è un uomo” di Primo Levi, riassumono perfettamente, a mio parere, i sentimenti di chi percepisce la deumanizzazione su di sé. Colpisce la frase “…solo un uomo è degno di avere un nome”, gli ebrei non erano più uomini e a renderli tali aveva contribuito la stampa e la diffusione di pregiudizi e stereotipi nei loro confronti che si insinuavano nelle menti delle persone. Sono stati sviluppati diversi studi che si concentrano sull’influenza della stampa nel processo che ha portato alla tragedia di cui siamo tutti consapevoli: in Italia gli ebrei furono censiti, obbligati ad auto denunciarsi, espulsi dalle scuole e, per promuovere l’antisemitismo politico furono appunto usati i mezzi di comunicazione dell’epoca. Mentre in Italia, inizialmente, non era presente un antisemitismo politico e razziale, in Germania i sentimenti più diffusi nei confronti della popolazione ebraica erano di disgusto e invidia: gli ebrei erano definiti ricchi e potenti ma anche parassiti.

Prendendo in esame diversi giornali dell’epoca si possono evidenziare i tratti che delineavano gli ebrei. In Italia, nel 1938, in una pubblicazione de “La difesa della razza” venne addirittura coniato un termine per definire le “azioni da ebreo”, ossia “un’ebreata”, inoltre gli ebrei vennero definiti come inclini all’adulterio e perversi sessualmente. Nella rivista si legge che una delle colpe degli ebrei, sarebbe quella di essere razzisti e di non volersi integrare (la quale è una colpa che si volge spesso anche ai clandestini in Italia, nel presente). Tra i testi storici presi in esame in letteratura viene evidenziato che la deumanizzazione del popolo ebreo viene espressa più attraverso una biologizzazione (definendoli quindi come una malattia o un’infezione) rispetto ad un’animalizzazione. In questo caso gli ebrei sono visti come una minaccia, soprattutto di tipo politico ossia gli ebrei sono percepiti come nemici della nazione.

​Si giunge, in questo modo, al razzismo e alla paura del diverso e, di conseguenza, alla sua deumanizzazione che sfocia in tutti quegli atti di cui siamo partecipi ogni giorno con attacchi agli immigrati, alla loro svalutazione, addirittura alle proteste “anti – negro” negli stadi. Queste ultime soprattutto rappresentano il regno della mascolinità, il luogo dove ogni uomo è maschio alfa, perché è nel suo territorio e proprio da questo discorso sulla mascolinità si può partire per una breve analisi dell’attacco al corpo maschile e femminile legato all’argomento della deumanizzazione. L’uomo nero è percepito come minaccia perché è associato all’aggressività, alla brutalità caratteristiche degli animali. Quindi non è una novità l’animalizzazione dell’uomo nero che diventa necessariamente stupratore, perché gli animali non amano, prendono quello che vogliono. La propaganda fascista si legava proprio a questi concetti, difatti uno dei manifesti più famosi mostra un uomo di colore che ha tra le mani una donna bianca con un vestito candido con un’espressione di sofferenza sul volto, al contrario di quella dell’uomo, sorridente. Quindi non è così sbagliato ipotizzare che il pregiudizio nei confronti delle persone di colore che stuprano le “nostre donne”, rubano il “nostro lavoro”, vanno a scuola con i “nostri figli”, sia partito proprio da lì e si sia radicato nel bagaglio culturale e sociale.

In questo caso, come è evidenziato in alcuni manuali (Cacciatore, Mocchi, Plastina, 2012) il corpo della donna è strumentalizzato, diventa un mezzo per portare il messaggio al destinatario: l’uomo italiano che viene minacciato dallo straniero che gli sta togliendo qualcosa di suo (donna).

Il concetto di stigmatizzazione

I gruppi che vengono deumanizzati riportano su di sé un segno, invisibile, ma che essi percepiscono: il cosiddetto stigma, il quale li rende bersaglio di trattamenti differenti da quelli riservati ad altri gruppi. Alcuni esempi di stigma possono essere le battute a sfondo razziale, le critiche offensive da parte di sconosciuti, l’esclusione da attività sociali e, nei casi estremi, ma attualmente piuttosto diffusi, le forme di violenza fisica. Naturalmente la percezione di essere bersagli di pregiudizi e portatori dello stigma può portare a conseguenze più o meno gravi, ad esempio influisce sul benessere fisico con un aumento dell’ansia e dello stress, che in periodi prolungati possono essere deleteri, ma anche sul benessere psicologico, specialmente sull’autostima e sull’umore. Inoltre induce anche a provare senso di colpa e di vergogna. Nei confronti di chi contribuisce alla diffusione dello stigma, invece, può comportare meno empatia e meno tendenze ad aiutare le persone appartenenti a quel gruppo. Lo stigma si riferisce a determinate caratteristiche: fisiche, caratteriali, culturali, perciò a tutti quegli elementi che evidenziano una differenza che viene associata a una devianza rispetto alla norma come, ad esempio, il colore della pelle, una menomazione o tratti caratteriali. Lo stigma colpirebbe quindi svariate dimensioni: cultura, stati affettivi, ruoli e ideali. Tutti questi elementi si perpetuano nel corso della storia perché passano di generazione in generazione, così l’emarginazione di un gruppo di individui scavalca le barriere generazionali ed è presente in ogni epoca, più o meno frequentemente. In questo modo la stigmatizzazione si diffonde nel mondo di ognuno di noi, questo mondo, questa porzione di spazio può essere rappresentato da giornali, luoghi, social networks, posti di lavoro, quartieri dove la vita quotidiana nasce e prosegue e mette in gioco determinati aspetti di una persona: dai soldi, al lavoro alle relazioni. È in questi spazi condivisi ogni giorno che i portatori di uno stigma vengono trattati in modo diverso da coloro che sono, invece, definiti come “normali”. Talvolta viene loro negato l’accesso a posti di lavoro, o l’entrata in alcuni locali, senza contare le offese, le battute e le giustificazioni a quegli atti che devono sopportare. Gli individui stigmatizzati possono arrivare a interiorizzare l’inferiorità, come nell’esperimento di Clark & Clark (1947) in cui alcuni bambini di colore dovevano decidere a quale delle due bambole che venivano loro presentate (una di colore e una bianca) sentissero di somigliare di più e con quale avrebbero voluto giocare. I risultati hanno sottolineato che, indipendentemente dall’età, i bambini preferivano giocare con la bambola bianca. È doveroso, tuttavia, affermare che per fortuna i tempi cambiano e una volta replicato questo esperimento in tempi più moderni (1987) è stato evidenziato che i bambini preferivano giocare con la bambola di colore: ciò potrebbe essere dovuto alle campagne di sensibilizzazione presenti nella società americana. Oppure può verificarsi un altro fenomeno: la profezia che si autoavvera. Essa implica che i pregiudizi e gli stereotipi nei confronti di quella persona tendono a influenzare i suoi comportamenti fino a confermare le nostre aspettative.

Naturalmente nei gruppi stigmatizzati possono esserci dei cali di autostima e di fiducia in se stessi che vengono sostituiti da vergogna e imbarazzo. L’autostima è un elemento costituito da diversi costrutti correlati che dipendono da situazioni specifiche ma anche di caratteristiche personali come abilità accademiche, come tratti del proprio aspetto fisico, come la razza. Lo stigma è legato anche alla malattia mentale, uno degli ambiti più esclusi, ancora oggi. Difatti si tende a “criminalizzare” la malattia mentale associandola spesso a comportamenti pericolosi o violenti e il fatto che spesso sia la polizia a intervenire su queste persone, piuttosto che il sistema di salute mentale non fa che aumentare questo stigma e la presenza di persone con gravi problemi mentali in prigione.

Conclusioni

“Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può più pensare, è come essere già morti.” Da “Se questo è un uomo.” di Primo Levi, pagina 19.

In questo articolo si è cercato di evidenziare una delle malattie che affliggono la comunità: la deumanizzazione rende gli esseri umani meno umani e può portare a conseguenze raccapriccianti, di cui, tra l’altro, abbiamo già fatto esperienza. Senza riflettere, ci si basa su tratti e caratteristiche che agli occhi di alcuni sembrano sufficienti per definire un altro “il male”. Rendendo l’altro inumano si riescono a compiere gesti violenti, perciò una volta che avviene la deumanizzazione il passo verso il comportamento violento è brevissimo. Ciò che colpisce è che la nostra capacità di non vedere l’essere umano di fronte a noi dipende da caratteristiche insulse, come il colore della pelle, come la credenza che da esso dipenda il comportamento di una persona, come se chi ha una carnagione differente dalla nostra non sognasse una vita migliore o venisse appositamente qui per stuprare, rubare, spacciare, uccidere. Un po’ come se tutti coloro che vanno in Inghilterra, Australia, America sognando di trovare un lavoro e di imparare la lingua fossero etichettati come assassini seriali, e venissero additati o fossero soggetti a quelle che ultimamente sono state definite delle “goliardate”. Ciò che spaventa è che nonostante il passato, nonostante la conoscenza delle nostre capacità mentali, dei pregiudizi, degli stereotipi, non abbiamo ancora imparato nulla e ci sarà sempre qualcuno che reputiamo “adeguatamente umano”.
Questo articolo, concentratosi su processi quali deumanizzazione e stigmatizzazione, vuole essere un chiarimento su ciò che l’uomo è in grado di fare, per far sì che gli stessi errori non si ripetano e si conclude con questo estratto da “Se questo è un uomo.” di Primo Levi con la speranza che l’ultima frase faccia riflettere.

“Qui, lontani momentaneamente dalle bestemmie e dai colpi, possiamo rientrare in noi stessi e meditare, e allora diventa chiaro che non ritorneremo. Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte avanti e indietro alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, a Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo.” p. 57

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