Lettera a un’adolescente in crisi
Cara Alice, ho scritto tante lettere nella mia vita, molte delle quali non sono mai arrivate a destinazione. Non perché il postino le abbia perse per strada, in verità non le ho mai spedite. In fondo, le scrivevo per me, non per gli altri. Avevo scoperto che scrivere mi permetteva di fare luce su ciò che sentivo, che mi tormentava, aiutandomi a trovare una soluzione ai miei dissidi interiori. Insomma, mi sono sempre auto-psicanalizzata, e devo dire che mi è servito molto. Questa lettera la scrivo per me, perché certe volte, quando mi sento giù, ho bisogno di ricordarmi di tutta la strada che ho fatto. Ora, guardando al passato, mi accorgo che sono una campionessa. È di adolescenza che voglio scrivere, e a chi indirizzare questa lettera se non a te che la stai vivendo ora? Dunque, non ricordo con precisione quando sono entrata nell’adolescenza. Il mio ricordo più lontano e doloroso è quel giorno, in seconda media, quando i miei compagni di classe stilarono una classifica delle ragazzine più carine… ed io finii in fondo, con zero in bellezza e quattro in simpatia. Penso che quel giorno mi abbia segnata a vita. Ricordo che avevo un gruppetto di amiche, eravamo in tre: Monica, Jessica ed io. All’inizio eravamo inseparabili, credevo fossero le mie migliori amiche. Poi, Monica e Jessica divennero “popolari”, ed io una “sfigata”, e presto fui lasciata da parte. Non sapevo neanche cosa volesse dire quel termine, eppure, ero stata etichettata così. Per giunta nessuno credeva in me. Nessuno pensava che io sarei riuscita a fare un liceo, tantomeno a laurearmi, né ad ottenere grandi cose nella vita. Volevo diventare giornalista. Mi dissero di tenere i piedi per terra. Chi parlava con mia mamma, le diceva di farmi prendere almeno un “diplomino”, sminuendomi utilizzando quel diminutivo. Ma io ho sempre avuto le idee chiare, e volevo arrivare lontano, dimostrare a chi non credeva in me che ce la potevo fare. In quel periodo passai molto tempo a cercare una migliore amica, magari una “sfigata” come me che potesse capirmi. Tuttavia, non trovai mai qualcuno da poter definire tale, sebbene un po’ di compagnia non mi sia mai mancata. Il fatto è che da bambini ci raccontano storie bellissime come quella di Babbo Natale e del Principe Azzurro… e anche quella dell’amica per la pelle, purtroppo: c’è sempre chi ti dice che un giorno la troverai. Da piccoli si ha bisogno di credere in queste cose, non si è pronti a scontrarsi con la realtà. Ciò non significa che la vera amicizia non esista, ma è qualcosa di estremamente raro. I rapporti umani sono spesso effimeri, capitanati dall’interesse e dall’opportunismo. Forse ora non riesci a capirlo, d’altronde, neanch’io lo capivo alla tua età; pensavo di essere io quella sbagliata, mentre, in realtà, è il sistema in cui viviamo ad esserlo. Quando iniziai il liceo non conoscevo nessuno. Credevo che sarei ripartita da capo e che sarei riuscita a farmi delle amiche vere. Ero capitata in una classe di ragazze bellissime e maschi scalmanati. Sapevo di non poter competere con la bellezza delle mie compagne – ero grossolana e massiccia –, così mi gettai a capofitto nello studio, sperando che in quel campo avrei ottenuto delle soddisfazioni. Ed è stato così: ho preso voti alti, sono stata encomiata dai professori, ho vinto concorsi di scrittura che mi hanno permesso di viaggiare. Le mie compagne, del resto, hanno sempre collezionato insufficienze, note e debiti, perché troppo occupate a scattarsi selfie per Instagram, invece di studiare. Il lato negativo di tutto ciò? L’antagonismo, l’invidia. Secondo me l’invidia è insita nell’animo umano; è qualcosa che fa parte di noi, perché l’uomo è per natura un essere competitivo. Penso che ci siano due tipi di invidia, quella sana e quella insana. Quando invidi una persona in maniera sana, la prendi come esempio perché vuoi arrivare dove è riuscita ad arrivare lei. Ma ci vuole una buona dose di maturità per sviluppare questo tipo di pensiero. Quando invidi una persona in maniera insana, invece, vorresti solo vederla fallire e stare male. È questa l’invidia più nociva e diffusa, di cui, per altro, sono stata vittima io stessa. In seconda superiore ho visto l’intera classe schierarsi contro di me. Questa volta mi avevano affibbiato l’etichetta di “secchiona senza vita sociale”. I ragazzi mi prendevano in giro per il mio aspetto. Le ragazze mi escludevano e mi parlavano alle spalle, studiandosele tutte per farmi soffrire. Ero completamente sola e mi sentivo triste. Avevo la sensazione di star perdendo il periodo più bello della mia vita, che invece le mie compagne stavano vivendo appieno. In quel periodo c’era un social network chiamato Ask, in cui si potevano fare domande anonime alle persone. Io non ero iscritta, ma ero venuta a sapere che su quella piattaforma si parlava di me, e venivano dette cose poco carine. In quel momento persi la mia autostima. Sentivo tutti contro, e pensavo di non valere nulla. Dopo tanti ripensamenti, ne avevo parlato con i miei genitori, e loro erano riusciti a sistemare la questione in maniera intelligente. Non avrei voluto parlargliene, temevo di deluderli, di farli soffrire per me, e per di più mi vergognavo. Ma loro risolsero il problema, ed ora so che di aver fatto la cosa giusta. In quarta superiore tutte le mie compagne di classe erano fidanzate, ed io l’unica single. Non avevo mai avuto un ragazzo, ed iniziavo a starci male. Sentivo ancora quella sensazione amara del tempo che passa per gli altri, mentre io rimango indietro. In quinta ero ingrassata fino a raggiungere ottanta chili. Fu un anno difficile, ed il mio esame di maturità non andò come speravo. Non credevo nel mio corpo, e dopo l’esame smisi di credere anche nelle mie capacità. Nel 2016, titubante, iniziai l’università. Temevo di non essere all’altezza, perché ormai non credevo più in me stessa. Odiavo fare foto perché mi vedevo brutta; odiavo anche dare gli esami, perché la paura di fallire mi tormentava. Volevo “farcela” almeno in qualcosa. Però, finalmente, avevo trovato un gruppetto di amici con cui viaggiare. Ci erano voluti anni. Ma si sa, le cose arrivano quando meno te le aspetti, bisogna solo dare tempo al tempo. Durante gli anni dell’università mi innamorai perdutamente di un ragazzo. Era il classico bad boy sicuro di sé, che sembra uscito direttamente da Tre metri sopra il cielo; il ragazzo che qualsiasi sedicenne vorrebbe come fidanzato. Avevo vent’anni, ma sentivo di essermi persa i miei sedici, così pensai che stare con lui mi avrebbe fatto recuperare il tempo perduto. In parte fu così. Ma la verità è che quel ragazzo mi privò dell’ultimo briciolo di autostima che avevo. Mi faceva notare ogni difetto, a partire dal mio fisico, paragonandomi continuamente alle altre ragazze che aveva avuto, e dicendomi che dovevo cambiare. Quando mi lasciò fu un periodo nerissimo. Mi sentivo inadeguata. Ricordo che caddi in una depressione che sembrava non avere via d’uscita. Ma ero stufa di sentirmi sbagliata, di vivere una vita in cui erano gli altri a dirmi chi dovevo essere, cosa sarei riuscita a fare e cosa no, attribuendomi etichette stereotipate. Pian piano nasceva in me uno spirito di ribellione che divenne l’unica arma a mia disposizione per riprendere le redini della mia vita. Iniziò così una sfida più grande di me, alla ricerca della persona che volevo essere, in barba al giudizio degli altri. Cominciai a dare gli esami con più fiducia nelle mie capacità, e portai a casa voti eccellenti. Mi misi a dieta e presi a fare esercizio fisico. Nel corso di un’estate persi 10 chili. Intanto il mio viso iniziava a cambiare, diventava meno paffuto, mentre i lineamenti si facevano più maturi. Finalmente sbocciavo, un po’ perché stavo maturando, e la mia fisicità cambiava per natura, un po’ perché avevo finalmente deciso quale fosse la mia strada. La cosa più difficile fu accettare i miei difetti: il mento sfuggente col suo grugno che non sopportavo, il naso appuntito, la faccia troppo ovale. Quando capisci che i tuoi difettucci sono quelli che ti rendono unica, è il momento in cui inizi davvero a piacerti. Non è facile, lo so, anche in questo caso ci vuole una buona dose di maturità; è difficile arrivare a comprendere che la perfezione non esiste. Nessuno è perfetto! È l’imperfezione a renderci inimitabili, irripetibili. Chi non lo capisce insegue per tutta la vita un modello di perfezione assolutamente nocivo, veicolato da una società malata, che porta a diventare anonimi, insipidi, la copia delle copie; e soprattutto è destinato ad essere infelice, perché ciò che otterrà col bisturi non gli basterà mai, vorrà sempre di più. E poi, comunque, quelli che noi crediamo essere difetti, magari per chi ci guarda da fuori sono addirittura dei pregi. (Quando ho chiesto al mio attuale fidanzato cosa ne pensa del mio mento, lui mi ha detto che è molto femminile). Il bad boy che mi aveva lasciata, improvvisamente mi rivoleva indietro, ma era troppo tardi. Pian piano mi accorsi che quei ragazzi che prima avrebbero guardato solo quelle “fighe” delle mie compagne del liceo, iniziavano a prestarmi attenzione, a cercarmi. Iniziai inoltre a scrivere per una webzine, facendo del giornalismo online nel ruolo di caporedattrice. Stavo finalmente dimostrando chi ero, e che potevo farcela. La cosa divertente è che le mie compagne, una volta finito il liceo, erano rimaste belle ragazze, certo, ma non erano lontanamente riuscite ad arrivare dove stavo arrivando io. Alcune lavoravano in bar, ristoranti o come corrieri, lamentandosi sui social network di un lavoro non all’altezza delle loro aspettative; altre erano diventate madri precocemente, le stesse che dicevano di non volere figli in nome della propria libertà. Sono questi i risultati dell’invidia insana, che non porta a nulla di buono, perché non spinge al cambiamento, al miglioramento di se stessi, ma solo a stare male per i successi degli altri. Mi sto per laureare, e non vedo l’ora di sventolare l’attestato di laurea davanti a chi diceva a mia madre di farmi prendere almeno un “diplomino”. Ho un ragazzo che amo e che mi rispetta, e pochi amici… non è importate la quantità, ma la qualità! Ho tutto quello che mi serve per essere fiera di me. Penso, durante la mia adolescenza, di aver vinto due grosse battaglie: quella contro l’etichetta che mi era stata imposta e quella contro chi non credeva in me. L’adolescenza in sostanza è questo: perdersi, stare male, ma poi racimolare la forza per ritrovarsi e diventare più forti; è non mollare, perché un giorno ne sarà valsa la pena. Durante l’adolescenza le cose sono il doppio difficili, ci si sente sulle spalle tutto il peso di una società che ci vuole perfetti, belli e popolari; si ha il bisogno di essere accettati, di avere degli amici, di rispettare dei “tempi standard” e di stare al passo con gli altri; di ottenere l’etichetta giusta, perché ci si convince che da quella dipenda la vita intera; si teme il giudizio altrui, senza rendersi contro che dietro alla cattiveria di chi non ci accetta c’è sempre un pizzico di invidia insana.
La verità è che a ognuno di noi serve un tempo diverso per capire chi vuole essere, per uscire dalla crisalide e diventare farfalla. L’altra verità è che l’etichetta che ci attribuiscono gli altri non conta proprio niente, è spazzatura. Ma per capire queste due cose ci vuole tanta strada. Nel frattempo, bisogna scalare la montagna senza arrendersi, e sarà dura, ma prima o dopo la cima inizierà a vedersi, e il panorama lassù sarà bellissimo.